Comincia a squarciarsi il velo di mistero che circonda lo stallo in cui è finito il contratto 2019/21 dei quasi 14mila dirigenti e segretari di Regioni ed enti locali.
La preintesa è stata firmata l’11 dicembre e ha poi superato gli esami al Mef, ma si è impantanata a Palazzo Chigi senza riuscire a raggiungere il consiglio dei ministri per il via libera definitivo. Dopo l’ultimo passaggio a vuoto lunedì scorso tutti i sindacati di settore, da Cgil, Cisl e Uil all’Unione dei segretari e a Fedirets si sono rivolti alla presidenza del Consiglio chiedendo di far terminare questa attesa record. Dovuta, a quanto filtra dalle spesse mura di Palazzo Chigi, alla contrarietà dei vertici della presidenza all’articolo 22 del testo: quello che disciplina le tutele per chi «ha formalmente intrapreso il percorso di transizione di genere».
In sintesi l’articolo, non esattamente centrale e relativa a pochissimi casi, permette a chi ha cambiato genere ma è ancora in attesa dell’aggiornamento anagrafico di sottoscrivere un «Accordo di riservatezza» con l’ente, che gli riconosce uno «pseudonimo provvisorio» da utilizzare nel cartellino di riconoscimento, nella targa fuori dall’ufficio o nell’e-mail; nei casi, insomma, in cui la mancata corrispondenza fra il nome e il genere nel frattempo assunto potrebbe creare imbarazzi. Lo pseudonimo è provvisorio perché, dopo qualche mese, l’aggiornamento anagrafico sana il problema: come previsto dalla legge 164/1982, ora attuata dal contratto.
La regola è identica a quella già prevista in tutti gli altri contratti della Pa, compresi quelli approvati dal Governo Meloni senza obiezioni di sorta. Questa volta, non è chiaro se per ragioni casuali, la clausola è balzata all’occhio alimentando anche qualche tensione pre-elettorale con il ministero per la Pa. Ora però le elezioni sono passate. E, salvo sorprese, il contratto potrebbe finalmente arrivare giovedì 20 al consiglio dei ministri.
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